L’Italia, si sa, è uno dei Paesi più vecchi al mondo. Siamo uno dei popoli più longevi e, allo stesso tempo, uno di quelli con la natalità più bassa. Secondo i dati Istat gli anziani (persone con più di 65 anni) sono il 21,7% della popolazione, mentre i ‘grandi vecchi’ (persone con più di 80 anni) rappresentano il 6,5% e crescono di un punto decimale ogni anno. I dati sono dovuti anche a una leggera diminuzione della mortalità annua, cosa che ci inorgoglisce nel mondo per i noti benefici della dieta mediterranea e del nostro stile di vita.

Dal punto di vista socio-economico, come è noto, la situazione è esplosiva. E lo è anche dal punto di vista sanitario. L’aumento della vita media ha accresciuto vertiginosamente le patologie tipiche della vecchiaia; in termini di sostenibilità, un futuro piuttosto vicino ci riserva delle sfide enormi.
Tra i problemi di salute più diffusi, nei soggetti che sono entrati nella cosiddetta terza età, c’è l’osteoporosi e le conseguenti fratture da fragilità ossea. In caso di osteoporosi alcune ossa del corpo umano sono particolarmente esposte al rischio di frattura. Tra queste il femore, che riveste un ruolo particolare per la sua funzione ‘portante’ durante la deambulazione e la stazione eretta.
La parte più alta del femore (femore prossimale) è quella sottoposta alle sollecitazioni meccaniche maggiori, quella che si frattura più facilmente in caso di osteoporosi. La causa è generalmente una banale caduta in ambiente domestico. A volte i pazienti possono riferire un cedimento dell’arto e un intenso dolore appena prima della caduta, segno probabile di una frattura ‘spontanea’ sotto il peso del corpo. Con il femore fratturato è impossibile stare in piedi, e anche a letto il dolore può essere notevole, tale da costringere il paziente a posizioni del tutto innaturali. Per un paziente anziano è un’esperienza drammatica! È a rischio l’indipendenza nelle vita quotidiana e il pericolo di complicanze è elevatissimo.
Spesso il paziente anziano (in particolare il grande anziano) viene definito ‘paziente fragile’, poiché anche in condizioni di apparente buona salute, basta molto poco per alterare un equilibrio precario. Una frattura di femore può essere il fattore scatenante, o aggravante, di disturbi cardiaci, respiratori, cognitivi, vascolari. Molte di queste complicanze sono dovute all’allettamento conseguente alla frattura. Per questo sono stati sviluppati dei protocolli di cura accelerati che prevedono di intervenire nei primissimi giorni dopo il trauma.
Lo scopo del trattamento ortopedico consiste nel ristabilire le condizioni che permettono al paziente anziano di ‘rimettersi in piedi’. Quasi sempre si tratta di un intervento chirurgico. Questo dovrebbe essere eseguito in tempi molto brevi proprio per limitare al minimo i rischi dell’allettamento. L’attenzione su questo punto è cresciuta talmente negli ultimi anni che i tempi di intervento per questi casi sono rientrati nei parametri con cui si valuta la qualità di cura di un ospedale.
I protocolli attuali prevedono che il trattamento chirurgico (nei casi in cui esso sia indicato e fattibile) venga portato a termine nel giro di sole 48 ore. Recentemente questo concetto è stato mitigato e si raccomanda di eseguire l’intervento non appena il paziente fratturato sia in condizioni ‘medicalmente ottimali’. In termini pratici si rientra molto spesso nelle 48 ore di cui sopra, ma questa nuova definizione non esaspera il fattore velocità e pone l’accento su una gestione più attenta alle possibili comorbilità.
C’è una ristretta percentuale di casi in cui la morfologia della frattura permette di evitare la chirurgia ed è possibile riprendere a camminare dopo solo pochi giorni di riposo. Ma si tratta dell’eccezione. La regola è il ricorso all’intervento chirurgico, a meno che le condizioni generali di salute del paziente siano talmente deteriorate da sconsigliarlo per gli elevati rischi legati alla procedura nel suo insieme.
Queste immagini illustrano le tipiche fratture di femore prossimale del paziente anziano osteoporotico.

Come si può vedere, tutte le fratture coinvolgono la parte ‘alta’ (‘prossimale’, in termini medici) del femore. La prima è un po’ più vicine alla parte sferica del femore (testa del femore), le seconda è un po’ più lontana. In termini medici le fratture come la prima sono dette ‘mediali’, le fratture come la seconda sono dette ‘laterali’.
Senza scendere nei dettagli delle classificazioni, va detto che questa è una distinzione fondamentale che si basa su motivi anatomici e, per la precisione, su motivi vascolari. A causa della peculiare vascolarizzazione di questa regione anatomica le fratture ‘laterali’ hanno un buon potenziale di guarigione, se adeguatamente trattate. Le frattura ‘mediali’ invece no. La ragione consiste nel fatto che le fratture ‘mediali’ interrompono quei piccoli vasi che portano sangue alla parte più alta del femore (testa del femore). Così facendo impediscono che si creino le condizioni biologiche per la guarigione della frattura stessa e per la vitalità della testa del femore. Nelle fratture ‘laterali’ questi vasi rimangono integri e possono fornire quelle cellule e quelle sostanze che sono responsabili del processo di riparazione.
Su questi presupposti si basa il tipo di intervento che l’ortopedico deve affrontare. Nel caso delle fratture ‘laterali’ è possibile far ricorso agli interventi di osteosintesi (cioè quegli interventi che ricostruiscono l’osso stesso del paziente per favorirne la guarigione). Nel caso delle frattura ‘mediali’ il rischio di non guarigione della frattura è talmente elevato che si preferisce sostituire la parte di osso fratturata con materiali artificiali, nella fattispecie con una protesi.


Queste due immagini illustra interventi di osteosintesi, che può essere effettuata con un chiodi endomidollarì o con placche.

Questa radiografia si riferisce a un caso in cui invece l’osso viene sostituito da una protesi, che può essere cementata o meno.
Sia nel caso di osteosintesi che nel caso di protesizzazione, il dispositivo ortopedico impiantato permette di ripristinare quella continuità meccanica che trasferisce il carico dal bacino all’arto inferiore. Pertanto il paziente può rimettersi in piedi, quasi sempre, già dal giorno dopo dell’intervento e affrontare precocemente il percorso riabilitativo, senza aspettare i tempi della guarigione ossa. Nella maggior parte dei casi si può ritornare nel giro di 40-60 giorni al livello funzionale precedente al trauma.
Per il paziente anziano significa innanzitutto ridurre al minimo i rischi legati all’allettamento che possono essere, in certi casi, fatali.
Non meno importante è la possibilità di mantenere la propria indipendenza nelle attività della vita quotidiana, quando le condizioni generali di salute lo permettano.
Questa sequenza di immagini aiuta a comprendere meglio di cosa stiamo parlando.




Se il sogno di un tempo era vivere in eterno, il sogno dei nostri tempi è stare bene in eterno. O per lo meno il più possibile. Viviamo nella contraddizione di una società che vuole apparire giovane, ma è vecchia… ed invecchia inesorabilmente.
Per ora possiamo solo dire che abbiamo strumenti per affrontare alcuni problemi della vecchiaia nel migliore dei modi. Per l’elisir di lunga giovinezza ci stiamo attrezzando!
PS: nel frattempo chiedete a loro ⇒ https://youtu.be/nRkvyuZBS0E